Di Loredana Chiarello

C'è un tempo per tutte le cose, ci ricorda, anzi ci sprona a riflettere, l'antica saggezza biblica del Qoelet.
Nelle scuole italiane è suonata l'ultima campanella: è tempo di estate, di vacanze, di tempo libero ma anche di esami per molti dei nostri giovani.
Per chi, come me, è operatore nel mondo della scuola, è tempo di bilanci. Riassumere ciò che accade in nove mesi di attività didattica è impresa impossibile.
Nove mesi sono in realtà un percorso, un cammino condiviso, una relazione di amore cosଠcome una gestazione fisica, che dura, appunto, nove mesi.
Nove mesi di scuola rappresentano un intreccio di vite, quelle dei ragazzi e la mia, la mia e le loro, mutate e maturate insieme.
Nove mesi di scuola sono molto di più di voti, interrogazioni, registri, riunioni, scadenze e programmi.

Insegno in una terra difficile, in una scuola "difficile", in un luogo difficile come può essere Corigliano Calabro, un luogo dove una ragazza di sedici anni può morire accoltellata e bruciata viva da un coetaneo, da chi con lei e come lei coltivava sogni e progetti, da chi fino a qualche momento prima aveva per lei il nome e il volto dell'amore.

Fare bilanci in un luogo cosଠpotrebbe sembrare ancora più difficile.

Quando quattro anni fa comunicai ad un collega che ero stata trasferita a Corigliano Calabro, nell'istituto dove tuttora insegno, mi consigliò di farmi iniziare alla filosofia Zen per poter affinare l'arte della calma e della pazienza.
Quando si parla di Sud e di periferie del Sud, spesso anche per chi ha radici comuni, la strada più facile è quella di ricorrere a stereotipi, senza curarsi di appurarne l'autenticità ma trasformandoli in dati di fatto.

Nei miei anni di esperienza ho imparato, invece, che a scuola non si vive di stereotipi. Proprio a Corigliano Calabro, e in una scuola considerata per molti versi difficile, ho trovato ragazzi e ragazze ricchi di umanità e solidarietà e desiderosi di farsi capire, desiderosi di essere ascoltati e di ritrovare negli adulti dei punti di riferimento, di trovare non professori, ma maestri.

Un luogo difficile, certo, ma non l'inferno descritto dai media nelle ultime settimane.

Ho imparato che non si vive di stereotipi, quando si entra in una classe e ci si ritrova di fronte gli occhi di ventotto adolescenti che ti scrutano e ti interrogano, perchà© sà¬, sono loro che interrogano noi, e non il contrario. Ho imparato che non si può e non si deve vivere di stereotipi davanti a quegli occhi in cui brilla la stessa fame di verità , di bellezza e di autenticità che è la costante di tutti i giovani, che siano di Corigliano Calabro come di Milano, di Palermo come di Napoli.

In una società carente di relazioni stabili, in cui l'indifferenza contrassegna i rapporti sociali, tutti si affannano a definire, a cercare l'epiteto perfetto per descrivere una situazione come quella giovanile che è invece talmente complessa da sfuggire ad ogni classificazione.

La scuola è la grande occasione che la società può offrire ai suoi giovani per arrivare ad essere uomini e donne libere, uomini e donne capaci di coltivare sogni e desideri, uomini e donne che abbiano il coraggio di progettare, che significa partire dalla realtà che c'è e spingerla in avanti. La difficoltà del percorso è data dal disagio che i giovani vivono: paure, incertezze, solitudine sono il sottofondo di quel malessere diffuso, espressione di una carenza dell'essere tipico della nostra modernità . Quell'essere che è ciò che siamo in relazione con gli altri, con le cose in cui crediamo, con i valori che riteniamo essenziali e fondanti.

Il "vero mestiere della scuola", cosଠlo aveva definito don Lorenzo Milani, è insegnare l'uso della parola, liberare le coscienze, dare dignità agli uomini e alle donne," fare le parti diseguali per poter rendere tutti uguali".

Quanto sono attualissime queste parole anche oggi, nonostante don Milani operasse più di sessanta anni fa. Ma, appunto, egli operava in un ambiente "difficile" come poteva essere la desolazione del Mugello tra i montanari umiliati, e proprio qui avviò l'esperienza educativa "liberante" di Barbiana.

Oggi come allora, la Scuola è chiamata a trasmettere la consapevolezza che essere liberi significa liberarsi dai pregiudizi e dalla pigrizia e accettare la sfida che ogni giorno ci pone davanti; significa avere progetti di libertà per sà© e per coloro che si amano o che semplicemente si incontrano.
La scuola è chiamata a progettare insieme ai suoi giovani, a far loro comprendere che non sono i libri di italiano, di storia o di matematica a tenerli in ostaggio e nemmeno dei numeri su un registro, ma che a tenerli prigionieri è l'ignoranza, il non conoscere, che chiude l'orizzonte dei loro pensieri, è la superficialità che li omologa , è l'impazienza che brucia le loro energie.

Oggi come allora, la Scuola è chiamata ad essere soggetto di promozione culturale, sia in senso formativo che orientativo, ma è chiamata soprattutto ad essere in prima linea nella battaglia contro il "vuoto" che ci circonda e che sembra inghiottire la nostra gioventù; è chiamata ad essere un luogo dove si possa accompagnare il percorso di formazione che un giovane compie, sostenendo la sua ricerca di senso, dove si possa educarlo al rispetto di sà© e degli altri, al rispetto della legalità , generato dalla consapevolezza che esiste un valore che è al disopra di tutto e che è la dignità di tutti.

Rispetto della legalità intesa come acquisizione di una coscienza civile e come promozione di una cultura che educhi al rispetto delle regole di convivenza sociale, non solo come rispetto passivo di norme, ma come consolidamento di legami di identità e appartenenza.

Questa compito esige che si riconosca, a tutti i livelli, la necessità di dar spazio, negli ordinari percorsi educativi e oltre, a momenti in cui sia affrontato questo concetto di legalità .

"Diritto & Famiglia" è e sarà impegnata nel futuro in percorsi di sensibilizzazione ed educazione alla legalità nelle scuole, tra i giovani, per educarli a "recuperare la cognizione del sistema normativo come strumento di comprensione e condivisione ovvero come un sistema naturale di convivenza"¦".

Scrivendo questo articolo, ripensavo alla scena finale del film "L'attimo fuggente" di Peter Weir, con la superba interpretazione di Robin Williams. Ebbene, nella scena finale, gli studenti salutano il professor Keating salendo sui banchi e rivolgendosi a lui chiamandolo "Capitano, mio Capitano". In lui avevano finalmente riconosciuto una guida e un compagno di viaggio.
Il compito arduo che spetta a tutti gli educatori è di fare un passaggio di qualità e di trasformarsi da professori in Maestri, perchà© è il maestro che ha il compito di elargire "non la sua sapienza, ma la sua fede e il suo amore".


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