di Redazione

Una cittadina straniera presenta un istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi i famiglia ed il questore la rigetta motivando il diniego per la mancanza dei requisiti richiesti dalla legge (artt. 19 e 30 d.lgs. n. 286/1998), ovvero per la sopravvenuta cessazione della convivenza tra quest'ultima ed e il coniuge italiano.
Il giudice di primo grado conferma il suddetto provvedimento amministrativo, mentre la Corte di appello ribalta la decisione del tribunale sostenendo che la cessazione di fatto della convivenza, dopo almeno sette anni di matrimonio e di convivenza effettiva attestata dai due precedenti permessi di soggiorno per motivi familiari, non costituisce circostanza idonea a far venire meno le condizioni per il rinnovo dello stesso permesso, in quanto il vincolo coniugale non può essere considerato fittizio. Inoltre, la Corte di Appello rileva che la convivenza attestata per più di cinque anni determina il diritto ad acquisire il diritto di soggiorno permanente in forza dell'art. 14 d.lgs. n. 30/2007, a meno che si verifichino le condizioni di decesso, partenza del cittadino UE, divorzio o annullamento del matrimonio.
A tal punto il Ministero dell'Interno e la questura propongono ricorso per cassazione sostenendo che la normativa (d.lgs. n. 286/1998 e d.lgs. n. 30/2007) richiedono la convivenza effettiva come elemento imprescindibile del rapporto di coniugio: la sua mancanza stabile, come quella accertata nel caso di specie, comporta il venir meno delle condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari.
La Corte di Cassazione evidenzia che il permesso di soggiorno per motivi familiari richiesto dal cittadino straniero coniuge del cittadino italiano è regolato dal T.U. n. 286/1998 e dal D.lgs. n. 30/2007 che ha recepito in Italia la Direttiva 2004/38/CE in materia di diritto dei cittadini comunitari e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
Nel caso di specie la cittadina straniera, in quanto coniugata con cittadino italiano, ha richiesto il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari (già concessole in precedenza altre due volte) il 27/2/2007, prima dell'entrata in vigore del d.lgs n. 30/2007, avvenuta in data 11 aprile 2007 ma il provvedimento di diniego è stato emanato il 13/8/2009, (e la validità del permesso medesimo scadeva in data successiva all'entrata in vigore del d.lgs n. 30 del 2007), in piena vigenza della nuova disciplina normativa di derivazione comunitaria. In proposito, infatti, l'art. 10 stabilisce che fino alla data di entrata in vigore del predetto decreto, è rilasciato il titolo di soggiorno previsto dalla normativa vigente alla data di entrata in vigore del decreto.
Quale normativa si applica?
La Suprema Corte ha osservato che il procedimento di riconoscimento del diritto al ricongiungimento del familiare dello straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, ha natura complessa ed è a formazione progressiva coinvolgendo l'attività valutativa dell'autorità amministrativa, di natura non discrezionale, quella dell'autorità diplomatica e l'eventuale ricorso, di natura non impugnatoria, al giudice ordinario, secondo quanto previsto dall'art. 30, comma 6, d.lgs. n. 286/1998. Ne consegue, quindi, che sarà applicato lo jus superveniens intervenuto nel corso della procedura, dovendo l'accertamento dei requisiti essere valutato alla stregua dei parametri normativi vigenti all'esito dell'iter procedimentale.
La Cassazione, poi, affronta la questione dell'applicabilità della nuova disciplina alle fattispecie in cui vi è ingresso o soggiorno irregolare nel territorio italiano, osservando : "Il familiare coniuge del cittadino italiano (o di altro Stato membro dell'Unione Europea), dopo aver trascorso nel territorio dello Stato i primi tre mesi di soggiorno "informale", è tenuto a richiedere la carta di soggiorno ai sensi dell'art. 10 del d.lgs. n. 30 del 2007 e, sino al momento in cui non ottenga detto titolo (...), la sua condizione di soggiornante regolare rimane disciplinata dalla legislazione nazionale, in forza della quale, ai fini della concessione del permesso di soggiorno per coesione familiare (artt. 19, comma 2, lett. C), del d.lgs. n. 286 del 1998 e 28 del d.P.R. n. 394 del 1999), nonché ai fini della concessione e del mantenimento del titolo di soggiorno per coniugio, è imposta la sussistenza del requisito della convivenza effettiva il cui accertamento compete all'Amministrazione ed è soggetto al controllo del giudice. (Cass. 17346 del 2010)". Tuttavia, in quella fattispecie il coniuge di cittadino italiano aveva richiesto il diritto di soggiorno informale fino a tre mesi e non il permesso per motivi familiari da rinnovare senza soluzione di continuità.
La Corte specifica che "Le differenze fattuali e giuridiche riscontrate inducono a ritenere che con il rigoroso orientamento soprarichiamato si sia voluto richiamare il limite di applicazione delle misure di tutela dell'unità familiare, costituito dall'abuso del diritto, espressamente sancito nell'art. 35 della Direttiva 2004/38/CE ("Gli Stati membri possono adottare le misure necessarie per rifiutare, estinguere o revocare un diritto conferito dalla presente direttiva, in caso di abuso di diritto o frode, quale ad esempio un matrimonio fittizio. Qualsiasi misura di questo tipo è proporzionata ed è soggetta alle garanzie procedurali previste agli articoli 30 e 31"), e nel nostro diritto positivo all'art.30 comma 1 bis del d.lgs. n. 286 del 1998, attesa la peculiare sequenza temporale in concreto intervenuta tra l'ingresso nel nostro territorio, la richiesta della Carta di soggiorno e l'insussistenza della convivenza tra i coniugi". Dunque, gli Stati membri, ai sensi dell'art. 35 della Dir. 2004/38/CE possono rifiutare un diritto in caso di abuso di diritto o frode, come, ad esempio un matrimonio fittizio, valutando la tempistica tra l'ingresso nel territorio nazionale, la richiesta della carta di soggiorno e l'assenza di convivenza tra i coniugi.

Al riguardo, la Corte di Cassazione, rileva che costante orientamento della Corte di Giustizia Europea, ritene che "Al cittadino di paese terzo coniuge di cittadino dell'Unione Europea, può essere rilasciato un titolo di soggiorno per motivi familiari anche quando non sia regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, in quanto alla luce dell'interpretazione vincolante fornita dalla sentenza della Corte di Giustizia n. C-27 del 25 luglio 2008, la Direttiva 2004/38/CE consente a qualsiasi cittadino di paese terzo, familiare di un cittadino dell'Unione, ai sensi dell'art. 2, punto 2 della predetta Direttiva che accompagni o raggiunga il predetto cittadino dell'Unione in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, di ottenere un titolo d'ingresso o soggiorno nello Stato membro ospitante a prescindere dall'aver già soggiornato regolarmente in un altro Stato membro, non essendo compatibile con la Direttiva, una normativa interna che imponga la condizione del previo soggiorno regolare in uno Stato membro prima dell'arrivo nello Stato ospitante, al coniuge del cittadino dell'Unione, in considerazione del diritto al rispetto della vita familiare stabilito nell'art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo". Ne consegue, quindi, che "si esclude il rilievo della regolarità od irregolarità della situazione nel nostro territorio dello straniero, qualificabile come familiare ai sensi degli art. 2 e 3 del d.lgs. n. 30 del 2007, ai fini del riconoscimento del titolo di soggiorno per motivi di coesione familiare".

Pertanto, deve escludersi che tra i criteri di riconoscimento iniziale e conservazione dei titoli di soggiorno previsti da tale normativa, possa farsi rientrare, nell'ipotesi del coniuge del cittadino italiano o UE, la convivenza effettiva.

"In particolare, con riferimento alla fattispecie dedotta in giudizio, il diniego del permesso di soggiorno è stato determinato esclusivamente dal difetto sopravvenuto del requisito della convivenza. Ne consegue che l'accertamento giurisdizionale è strettamente vincolato dalla motivazione del provvedimento amministrativo e deve limitarsi al riscontro, alla luce della nuova disciplina normativa delle condizioni riconducibili all'unione coniugale.
Le norme applicabili ai familiari di cittadini italiani, al riguardo, sono gli artt. 12 e 13. La prima disciplina le ipotesi in cui il divorzio o l'annullamento del matrimonio contratto con il cittadino italiano conducono alla perdita del diritto al soggiorno, escludendone pertanto la privazione automatica. In particolare, il familiare che non abbia già ottenuto la carta di soggiorno permanente, (ipotesi coincidente al caso di specie) perde il diritto al soggiorno (in assenza di figli minori) se il matrimonio è durato complessivamente meno di tre anni di cui meno di uno sul territorio nazionale. L'art. 13, primo comma, richiede l'ulteriore condizione che il titolare del diritto al soggiorno non costituisca un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica. Come risulta evidente dall'esame delle disposizioni sopraindicate, il requisito dell'effettiva convivenza è del tutto estranea alla disciplina normativa del d.lgs. n. 30 del 2007, mentre permane vigente, anche perché espressamente previsto dal citato art. 35 della Direttiva 2004/38/CE, il divieto di abuso del diritto e di frode, realizzabile mediante matrimoni fittizi contratti all'esclusivo fine di aggirare la normativa pubblicistica in tema d'immigrazione"

In sintesi, con riferimento alla fattispecie dedotta in giudizio, il diniego del permesso di soggiorno, non si giustifica alla luce del divieto dell'abuso del diritto o a causa del verificarsi di una frode, ma solo in virtù dell'accertamento della cessazione sopravvenuta, dopo sei anni di matrimonio, della convivenza tra i coniugi, ritenuta oggettivamente ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno. Non è compiuta infatti alcuna valutazione relativa alla natura fittizia o reale del vincolo coniugale.


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